REVIEW

Nell'arte di Eleonora Barnia la passione - o, per dirla alla Baudelaire, la voluttà - è neutra, ma non neutralizzata: pure silhouette appaiono distintamente per poi sfumare, diluite in uno sfondo che non vuole più raccontare, che non offre più, in quanto superflui, quei riferimenti cari al fruitore medio, ansioso di ravvisare un qualsiasi appiglio nel mare aperto dei simboli e dei segni. Superata la plasticità, retaggio retorico dell'artigianato anacronista, come pure i piani prospettici e le gamme cromatiche, nelle loro infinite, mutevoli e abusate varianti, la forma, raggiunta oramai la sua sintesi, è infine purificata.

Ma non si tratta di essenzialità "disumanizzata", tutt'altro.

La trasparenza, elevata al suo massimo grado e ripulita dal contrasto, simpatizzando con il Neoclassico - e mai con la sospensione metafisica - talvolta accordandosi alla serialità reclamistica del modulo ripetuto, ha a che fare con l'impersonalità - ed è proprio qui che si fa oggettiva: non risente delle influenze, essendo "classica", mira alla quintessenza, dopo aver a lungo scandagliato le possibilità multiple della raffigurazione mimetica, per offrirsi incondizionatamente segno, ma non gesto.

La voluttà appare integra, manifestamente ideale, contemplativa, eppure al tempo stesso attraente, in quanto ammorbidita nei contorni e circonfusa di luminosità - la stessa che, emanando, riassorbe. In quest'ottica l'artista rilegge sé e il suo universo, indipendentemente dal soggetto, ritrovando nel quotidiano il significato intimo della realtà, il contenuto smarrito nelle forzature delle tendenze e dei consumi, collocando il pensiero in quel miraggio morbido, eppure mai banale, che fu prima romantico e poi neoimpressionista, anelando a una nuova, modernissima, Belle époque della Ragione.

Daniele Mariano Pietravalle